In questo periodo “Cercasi personale” è diventato il cartello più esposto tra le vetrine di bar e ristoranti, sostituendo gli avvisi relativi alle prescrizioni sanitarie per l’accesso ai locali che per lunghi mesi hanno tappezzato ingressi e interni dei pubblici esercizi italiani.
Di seguito il parere del presidente nazionale di Fipe Confcommercio, Lino Stoppani.
«A prima vista, sembrerebbe un buon segnale. Da una parte, perché questi avvisi subentrano a quelli sanitari che hanno testimoniato la gravità di momenti difficilissimi, affrontati in prima linea dal nostro settore, momenti che oggi non sono certo dimenticati, ma sembrano aver attraversato finalmente la fase più intensa e drammatica. Dall’altra parte, la ricerca di personale significa incontrovertibilmente che il lavoro sta riprendendo con volumi e dinamiche che giustificano nuove prospettive.
“Cercasi personale” è, insomma, quasi una dichiarazione d’uscita dall’emergenza, anche se di normalità” appare oggi alquanto difficile parlare, viste le fortissime preoccupazioni politiche, umanitarie ed economiche legate alla guerra, con l’esplosione dei costi per il caro energia e la forte fiammata inflattiva, e l’incertezza endemica che questa pandemia ancora alimenta.
Se la ricerca di personale è dunque segnale di miglioramento dei consumi fuori casa, “Cercasi personale” è anche l’appello disperato dei ristoratori italiani che il personale che cercano, in realtà non lo stanno trovando affatto.
Sono, infatti, arrivati al pettine i grandi problemi del mercato del lavoro in Italia, solo in parte connessi alle (basse) retribuzioni e ai (pesanti) orari di lavoro nel settore (che superficiali valutazioni considererebbero le principali cause del fenomeno), certamente esacerbati dagli effetti distorsivi delle generose politiche di sussidio che, senza adeguate politiche attive, attivano spirali di accidia, pigrizia e disimpegno.
Le stesse politiche attive del lavoro, che sono state istituite per riqualificare e rinnovare le competenze, andrebbero accompagnate a incentivi, come la temporanea decontribuzione dei salari a favore dei settori come il nostro che assorbono manodopera e che hanno bisogno di trattenere competenze e professionalità, attirate da altri settori considerati evidentemente più performanti.
A questo proposito, è necessario osservare che esiste anche una delicatissima e dilagante questione culturale, che confonde la semplicità con il semplicismo, incentiva le scorciatoie, promuove la competizione superficiale e baratta il proverbiale uovo con la gallina, nelle esistenze anche dei più giovani, per cui è sempre più difficile accendere orgoglio e passione, e sempre più probabile creare disagio, mortificando personalità e spegnendo motivazioni. In Italia si sconta certamente anche un problema demografico, che non favorisce il vivaio dei mestieri, con le note difficoltà a gestire i naturali turnover generazionali che, in attesa di vere politiche per le famiglie, potrebbe essere tamponato anche con una lungimirante politica sui flussi migratori, attenta, cioè, a garantire manodopera aggiuntiva per mansioni a forte manualità, come il barista o l’interno di cucina, tralasciando le strumentalizzazioni politiche e definendo percorsi di formazione e di integrazione sociale, che rafforzerebbero la domanda di lavoro.
I giovani, italiani e stranieri, amano il mondo della ristorazione, non solo come avventori, ma anche come scelta di vita quando decidono di intraprendere l’avventura di mettersi in proprio (il nostro è tra i primi settori per tassi di imprenditoria giovanile). Ma lavorare nel settore significa anche conoscerlo dalle fondamenta, a partire dal duro lavoro che implica. Proprio dentro la pandemia si è cominciato a parlare di great resignation, con tantissimi giovani che hanno ritenuto di dare dimissioni volontarie dal lavoro per cercare delle condizioni che fossero più vicine al loro ideale e ai loro bisogni.
Legittimo, e se vogliamo anche sintomatico, di una generazione che pretende coerenza tra vita e valori. Tuttavia, il rischio è che per la fretta di vivere secondo i propri standard si giudichi frettolosamente la realtà. E ci si perda alcuni passaggi che non sono solo molto importanti, ma sono anche edificanti le personalità: ad esempio, si rischia di non cogliere il valore del lavoro umile e l’insegnamento che solo la fatica produce.
Il lavoro impegnato è essenziale per la dignità della persona, perché costruisce e forgia caratteri, permette il raggiungimento delle ambizioni, dà spazio alle qualità, rafforza l’identità umana, gratifica la coscienza e la consapevolezza di ognuno, grazie anche al rispetto e alla stima che i risultati del (buon) lavoro portano. Nel lavoro ci si realizza, anche perché ci si rende conto del proprio valore come persone.
Un concentrato di valori di grande modernità, da preservare e recuperare, non solo per i nuovi scalchi, ma per tutti i mestieri. Nei cartelli, infatti, si scrive “Cercasi personale”, ma sappiamo bene che servono personalità di valore; serve tutta l’umanità, la profondità e la capacità di sentirsi parte di qualcosa di più grande; servono cioè le persone».